XII

IL «LIBRO TERRIBILE»

Composti dopo il 1831[1] i Paralipomeni della Batracomiomachia rientrano per la loro parte maggiore chiaramente nel periodo di preparazione alla Ginestra, in quella stagione napoletana in cui l’impegno non diminuisce, ma si particolarizza e si precisa in una polemica piú distesa e piú acre, meno intensamente passionale fino all’esplosione dell’ultimo capolavoro.

Il lavoro sarebbe stato continuato (secondo la testimonianza del Ranieri[2]) fino agli ultimissimi giorni prima della morte testimoniando cosí una stesura non concitata ed urgente, ma disposta nel tempo ad esercizio ed alto divertimento letterario che avrebbe accompagnato perfino la composizione della Ginestra e del Tramonto della luna[3].

Come molto prima la triplice traduzione del poemetto pseudomerico (1816 – 1821-22 – 1826) aveva accompagnato espressioni liriche e di prosa d’arte diverse ed intense con il ritorno sicuro di un’attività cara, e riposante pur nella sua venatura frizzante ed acidula. Ed anzi si potrebbe notare che fra le traduzioni e il poemetto originale che a quelle si richiama, tutta la vita del Leopardi è accompagnata nei suoi termini di apprentissage e di maturità, da questo cangiante motivo eroicomico, dalla suggestione di questo mondo fantastico animalesco che pare indicare uno strano interesse paradossale: non prova di un’astratta ironia leopardiana alla Tissi[4], ma semmai contributo alla indicazione di una personalità romantica complessa di intime volute bizzarre, di vibranti rabeschi inseriti in un tessuto compatto e perfetto.

In realtà il poemetto alessandrino (il giovane Leopardi lo sentí tale e nel suo Discorso sopra la Batracomiomachia lo assegnò al periodo post-teocriteo) aveva stimolato il poeta a descrizioni serene e gioiose (in tono con l’originale da lui reputato «bellissimo»), sempre piú idilliche e popolaresche tanto da dover essere seriamente considerate in quella preparazione fra classica e aulicamente popolareggiante che si precisa nel periodo precedente ai grandi idilli. Tendenza idillica e giocosa, paesana e alessandrina che nei Paralipomeni agí indubbiamente ancora come motivo di dolcezza e di predilezione per quell’argomento, ma che nella concreta poetica del poemetto è assorbita come sfumatura in un tono ben diverso e ben piú complesso, permanendo come bisogno di scherzo che si traduce in svolazzi leggeri e briosi, in rapidi accenni di calligrafismo.

Si precisi intanto, per giungere al tono nuovo del poemetto e alle sue ragioni che superano il divertimento e la semplice satira, ma nutrendosene, che il Malpensante (come il Leopardi si chiama[5] con suggestivo distacco dalla comune umanità civile tesa al conformismo – e mai come in questo periodo il Leopardi fu terribilmente anticonformista) non volle solo fare la satira dei liberali e dei reazionari, quanto anche creare una fantasia, un telaio compositivo, in cui inserire polemiche molteplici contro «il mondo sciocco», sfoghi apparentemente occasionali o saltuariamente presentati come luoghi di una passione e di uno sdegno lasciati liberamente affiorare senza una condotta ferrea e puntuale. Una fantasia con larghi margini di libertà e appunto perciò dilungatasi per tanti anni come la lettura di un livre de chevet, e capace di subire accentuazioni di colori assai diversi su di un fondo volutamente poco appariscente.

Si pensi subito alla differenza di intensità e di ricchezza fra l’inizio (la parte piú piacevole e piú vicina, pur nell’intento piú acuto, al poemetto pseudomerico nelle versioni leopardiane) e l’ottavo canto con le sue ombre macabre e la sua volontà di scherzo funebre cosí serio e cosí veramente, secondo l’espressione giobertiana, terribile. E si pensi d’altronde a tutto lo schema del poemetto e si avrà la sensazione di due tempi non staccati, ma diversamente accentuati anche se i temi si intrecciano poi e si rinforzano verso l’ultimo.

Tanto che si potrebbe pensare che all’inizio il Leopardi abbia voluto fare una pura satira politica da sottomettere al velo della vicenda topesca e conservando tutto il brio della versione pseudomerica, mentre a poco a poco le esigenze affidate al poema crebbero, la satira si estese a polemica rappresentata e si caricò di toni sempre piú energici, mescolati sí alla bonaria scherzosità delle prime ottave, ma sempre piú prevalenti ed amari. E si può ancora pensare che all’inizio (prima che si presentasse Topaia con i caratteri di Napoli[6]) il Leopardi volesse fare una satira dei moti liberali precisati in quello napoletano del ’20-21, e che poi invece pensasse a piú ampia e trasfigurata rappresentazione in cui i riferimenti storici oscillano fra precisazioni e lontananze da una chiara situazione storica, sempre piú sottomessi ad una polemica che tocca i punti essenziali della situazione umana anche se lontana dall’espressione diretta e lirica che ne darà la Ginestra.

Lo stesso schema del poemetto ci mostra del resto la tenuità della trama narrativa e il suo variare di intensità e di vibrazione a motivi piacevoli o profondi. Mentre nel primo canto la descrizione briosa della fuga dei topi allietata dal veloce ritmo del paragone dell’esercito papalino in fuga stimolato dal suo generale

(cui precedeva in fervide, volanti

rote il Colli, gridando, avanti, avanti),

le varie elezioni di Rubatocchi e di Leccafondi, si mantengono in una chiara atmosfera di divertimento di gusto e di narrazione «in ottava», già nel secondo il viaggio del conte ambasciatore assume un tono piú deciso di bizzarria metafisica e di satira acre, ma sempre episodica e gustosa, sparsa ancora di frizzi non appuntiti come avverrà piú avanti:

Rispose che venuto era legato

del proprio campo; e ben legato e stretto

era piú che mestier non gli facea.

Ma scherzi non sostien l’alta epopea.

E cosí dal divertimento delle vicende topesche, che inducono sempre mosse lievi e soffici, come l’esistere implacabile e ottuso dei granchi irradia un’aria lucida e metallica (prova ad ogni modo che non si tratta di una comicità bonaria e svagata), si passa qua e là nel secondo canto al risentito ritratto marionettistico dell’austriaco-granchio Brancaforte, nel quarto al labile disegno in sfumato dell’occupazione di Topaia da parte dei granchi, all’episodio nel quinto dell’eroica morte di Rubatocchi: ambigua scena che nascendo su di un piano di divertimento ne esorbita con la sua doppia direzione di riduzione minuscola di un motivo epico particolarmente solenne e classico, di adeguazione risoluta e seria di uomini e bestie, offensiva per la comune boria umana, e d’altra parte di esaltazione tesa e generosa di una verità del «valore» ovunque nasca, su qualunque situazione si sviluppi. E nel sesto dal divertimento piú chiaramente storico-satirico di Topaia oppressa si avvia la «suite» piú intensa ed intima del poemetto: il viaggio di Leccafondi, la tempesta notturna[7], il colloquio con Dedalo e, nei canti piú compatti settimo e ottavo, il volo fino all’Averno generale[8], la discesa nell’Averno dei topi.

Il taglio finale alla Baldus indica poi nello schema generale del poemetto la mancanza di una intenzione di semplice satira storica che avrebbe cercato facilmente una sua minuta compiutezza.

Da un sunto fedele del libro si ricaverebbe poi che il tenue legame narrativo cede per lo piú posto (tranne negli ultimi canti serrati in un ritmo piú profondo e nutrito leopardianamente) a un nesso di composizione larga, a una ricerca di tono medio alimentato da elementi diversi, da sfoghi quasi retorici, da satire piú dirette, da descrizioni disinteressate, da polemiche piú accese o piú blande: tutto unito da un impegno non eccessivo che avrebbe scoperto di piú le suture di motivi nati su di un unico tema centrale (la situazione umana), ma affiorati in diversi momenti e con diverse accentuazioni.

Perché si possono indicare subito temi diversi che, se anche riconducibili a un interesse comune, risaltano per forte diversità di tensione e di direzione. Cosí quello scoppio di nazionalismo, che sconcerta alle prime il lettore abituato a un Leopardi cosí fisso ai termini essenziali del dramma dell’uomo che non si riesce a comprendere il ritorno, e violento, di una passione che poteva apparire legata ad un Leopardi ingenuo, giovanile, retorico, superato da ben altre passioni, da ben altre ansie. E difatti queste ripetute esaltazioni romane e nazionalistiche sono da considerarsi (fuori delle ire carducciane e degli elogi mediocri di critici nazionalisti come l’Allodoli) un ritorno di motivi ingorgati e non direttamente affrontati ed esauriti nella maturità del poeta, mentre d’altra parte rappresentano una polemica contro atteggiamenti di storici e filologi tedeschi che il Leopardi accomunava agli atteggiamenti di una poesia e di una filosofia spiritualistica che egli del resto non conobbe direttamente e che poté facilmente svalutare nella volgarizzazione giornalistica di riflesso cousiniano o di conversazione nei salotti idealistici dei «nuovi credenti».

Un motivo cosí, che poeticamente rimane avulso dal resto nel suo riferimento caratteristico di eloquenza patriottica in cui si mescolano accenti di nazionalismo accademico nato nel ’700 e non divenuto sorgente di azione, ma che si deve sentire, anch’esso, come parte di una piú vasta polemica in cui assume il suo relativo valore di forza sdegnosa contro una mentalità astratta e superba, avversaria inevitabile della sua morale eroica e personale. Allora la violenza xenofoba (I, 22; III, 11, 31; VII, 28), nel suo tono esasperato, e insopportabile nel suo senso esplicito, trova spiegazione nell’impazienza combattiva di questo periodo, perde il suo odore di angustia accademica, come l’esaltazione di Roma antica e della grandezza italiana (ben diversamente affidata alle varie spade dei vari Florestano Pepe) può servirci a comprendere come la satira dei granchi reazionari o dei topi liberali vive in funzione della coscienza di un dramma piú profondo e assoluto i cui termini superavano di gran lunga l’ottimismo facile e umanitario del romanticismo spiritualista. Per il Leopardi il legame fra quella «virtú» del passato e il presente non poteva trovarsi che in una nuda assenza di fatue speranze, in una dura coscienza di miseria e di limite su cui solamente potevano sorgere gesti desolati e solenni come quello di Rubatocchi o affermazioni di solidarietà combattiva come quella della Ginestra[9].

Penetrando cosí nel mondo dei Paralipomeni oltre l’unità piú esterna di alto divertimento e di tono medio in cui i temi appaiono diversi e poco amalgamati, si viene ad una conferma della coerenza del periodo eroico leopardiano in cui il poemetto porta su piani piú o meno profondi un multiforme attacco al «mondo sciocco» investito fino all’uso estremo del macabro potente e «terribile» degli ultimi canti che diventa idealmente la molla segreta di tutto il poemetto anche sotto i suoi aspetti piú piacevoli. È da questo punto di vista e non da un’insofferenza di umore, da un astio negativo che si può immaginare derivata la satira dei liberali napoletani e la decisa condanna dei reazionari che il Leopardi disumanizza ben al di là di quanto fa per i liberali che nei topi millantatori e paurosi trovano pure figure di una umanità capace di gentilezza e di generosità pur nei suoi limiti ridicoli[10].

Piú che contro i liberali la polemica andava, passando da toni che potevano anche essere di riso di piú acre stimolo, contro un’epoca e un atteggiamento spirituale che suscita l’energia aggressiva del poeta con quell’impegno amaro e violento che non escludeva il disprezzo della superiorità cosciente e sperimentata:

Allor nacque fra’ topi una follia

degna di riso piú che di pietade;

una setta che andava e che venia

congiurando a grand’agio per le strade,

ragionando con forza e leggiadria

d’amor patrio, d’onor, di libertade,

fermo ciascun, se si venisse all’atto,

di fuggir come dianzi avevan fatto

(VI, 15).

E in realtà contro le congiure e le attività politiche dei topi il distacco e il disprezzo son meno duri, piú sorridenti che non contro le loro posizioni spiritualistiche di “nuovi credenti”: cosí la descrizione di Topaia in regime costituzionale è soffusa di una bonarietà quasi indulgente, cosí la figura di Leccafondi «signor di Pesafumo e Squarciavento» è piú ridicolizzata e scarnita grottescamente per la passione di «filotopo», di spiritualista che per la sua ingenuità politica quasi accarezzata nella sua attiva buona fede.

Di tono meno bonario e macchiettistico (anche se pure in queste macchiette corre un certo brivido poco rassicurante) sono le polemiche contro le tesi del progresso e della bontà provvidenziale, in cui attacchi violenti affiorano contro l’«arcano poter», contro la

de’ suoi figli antica

e capital carnefice e nemica

(IV, 12)

e vengono autorizzate espressioni piú sincere e decise fuori di quella specie di nebbiolina fiabesca che circonda le parti piú liete della satira politica in accordo con il tono di alto divertimento del racconto pseudomerico, con quelle descrizioni di paesaggi rapidi, a mano libera, e che si infoltisce in alone cupo e pesante intorno ad una fantasia macabra, funerea nell’ultima parte del poemetto.

Nel tono piú largo, divertito, rapidamente gustato nel suo brio narrativo (da chi di solito viveva nella difficile e faticosa concentrazione della lirica) si distinguono dalla parte piú impegnata un’abbondanza di svolazzi leggeri e scherzosi

(qui volentieri invocherei la musa,

se non che l’invocarla or piú non usa)

(IV, 41),

un abbandono all’ottava e al suo incanto tradizionale, e quel tratteggiare a mano libera paesaggi cosí lontani dagli accenni segreti degli idilli, mentre, dilatati nel loro carattere sbrigativo e illustrativo, son riprova di abilità in superficie e narrativa, come invece le poche parole comuni di altre poesie («le vie dorate e gli orti») erano prova di una consumazione del dato di natura in piena e originale vita poetica. Perfino paesaggi in tono di danza popolare e scherzosa tanto da toccare un gusto del grottesco ancor prima del suo incupirsi piú coerente:

Tutti desti cantando erano i galli

per le campagne, e gli augelletti ancora

ricominciando insiem gli usati balli

su per li prati al mormorar dell’ora,

e porporina i sempiterni calli

apparecchiava al dí la fresca aurora,

né potea molto star che all’orizzonte

levasse il re degli anni alta la fronte

(II, 11).

A volte il paesaggio riesce ad effetti di distensione, come dopo il temporale fiabesco che investe Leccafondi[11]:

Già l’aere s’imbiancava in oriente,

e di piú stelle il raggio era sparito,

e il seren puro tutto e tralucente

promettea ch’un bel dí fora seguito.

Quasi sgombro dall’acque era il terreno,

e il soffio boreal venuto meno.

L’ospite ad un veron condusse il conte

mostrando il tempo placido e tranquillo,

sola i silenzi l’una e l’altra fonte

rompea da presso e da lontano il grillo.

Qualche raro balen di sopra il monte

il nembo rammentava...

(VI, 44-45).

Paesaggi che di solito introducono nel loro colorito meno profondo un’aria di scherzo musicale, di idillio burlesco appena teso a volte da un abbandono piú intimo, da un languore suggestivo

(Era maggio, che amor con vita infonde,

e il cuculo cantar s’udia lontano,

misterioso augel, che per profonde

selve sospira in suon presso che umano,

e qual notturno spirto erra e confonde

il pastor che inseguirlo anela invano,

né dura il canto suo, che in primavera

nasce e il trova l’ardor venuto a sera)

(II, 4),

misto a volte di intenti scherzosi e di piú precisa raffinatezza

(Ma già dietro boschetti e collicelli

antica e stanca in ciel salía la luna,

e su gli erbosi dorsi e i ramuscelli,

spargea luce manchevole e digiuna,

né manifeste l’ombre a questi e a quelli

dava né ben distinte ad una ad una)

(II, 7),

con mescolanza di parole elette, moti piú squisiti, forme approssimative, mosse sciatte come in questo notturno improvviso:

Già la stella di Venere apparia

dinanzi all’altre stelle ed alla luna:

tacea tutta la spiaggia, e non s’udia

se non il mormorar d’una laguna,

e la zanzara stridula, ch’uscia

di mezzo alla foresta all’aria bruna:

d’Espero dolce la serena imago

vezzosamente rilucea nel lago.

(I, 12).

È nell’Averno topesco che i colori si intridono con ombre cupe e perdono questa lucidità un po’ di second’ordine, alla brava, che permette l’appiglio di punte piú energiche perché il suo segno non è la serenità idillica, ma un tono medio illustrativo pronto a permettere lo scatto non incoerente di sequenze ragionative e di esplosioni polemiche.

In questa intonazione, in cui la narrazione, come abbiamo visto nello schema, discontinua e alternata, diventa man mano che avanza un batter leggero del ritmo verso piú misteriosi ed acri accenti, entrano senza sforzo (appunto perché la natura del fondo generale non è idillica come potrebbe superficialmente parere) le punte polemiche sempre piú urgenti e irresistibili e sempre piú unite in un urto deciso contro un mondo di credenze religiose e filosofiche di cui il frivolo simbolo sono le innocue barbe liberali, ma che al romantico illuminista appare come intollerabile e miserando ritorno di superstizione e di barbarie civile: come stolida boria di insipienti che viene a confondere e velare la nuda verità di cui il Leopardi si sente intrepido assertore, sul piano sentimentale di una michelstaedteriana «persuasione» contro «retorica». E certo il Leopardi, che di questa persuasione dava nelle sue liriche l’espressione poetica e che in ogni momento di questo periodo, anche nel tono di elegia, faceva sentire questo possesso eroico di una personalità coincidente con una verità, nei Paralipomeni ne porta la certezza su di un piano di riprova, di conferma polemica e perciò in toni meno densi, meno lirici, ma non degradati in semplice ragionamento e coerenti allo spirito poetico che li tende.

Ecco la satira della tesi (cattolico-liberale e cattolico-reazionaria di Lamennais come di De Maistre e De Bonald) secondo cui l’uomo è creato perfetto – dato che Dio non poteva fare il contrario – e decadde poi da quel paradiso a cui tende di nuovo con la religione e i buoni costumi (IV, 3 e seguenti)[12].

Ecco la feroce satira dell’io dei topi e dell’immortalità della loro anima a cui guida la parte piú unita e riuscita del poemetto.

Preparata dal fiabesco viaggio di Leccafondi e dall’incontro bizzarro di Dedalo con il topolino, la satira si svolge prima in forma di disquisizione sull’io dei bruti, poi si interrompe nel viaggio fantastico e in quello spettacolo di museo archeologico invernale e tenebroso che è la rapida presentazione della terra preistorica.

I toni cupi si infittiscono e nell’orrore grottesco che si sviluppa, la discussione, la polemica tese da una lugubre allegria si inseriscono con tanto maggiore efficacia rivelando la loro piú profonda natura. La stessa trasformazione di uomini in topi che dà evidentemente la dimensione nuova cercata dal Leopardi per una vicenda beffarda, crudele e convinta (checché ne possano pensare i cercatori di albe di fede), opera qui il suo incanto vero, piú tenue e giocoso altrove, provocando una mescolanza sempre piú scura di suggestioni di satira, di polemica, di scherzo funereo, di cupa serietà, di convinta e combattiva asserzione.

L’isola dell’inferno si apre dopo tale preludio, stillante di funebre orrore: disfacimento, ossame, brulichio di larve animalesche da alto «racconto straordinario» che supera ormai ogni possibile comicità pur seguitando a nutrirsene per una patina di narrazione ad ottava che doveva mantenere il legame con la tradizione italiana dell’eroicomico e con il «divertimento» delle traduzioni dalla Batracomiomachia.

Una fantasia macabra si fa minuta nella graduazione delle bocche dell’inferno per ogni razza animale, in un elenco di sadica completezza, e si alterna, si integra con agre note di battaglia anticattolica ora piú aperte ora piú sornione:

maggiori inferni e della sua statura

ben visitati avea l’uom forte e saggio

e vedutili, fuor nella misura,

conformi esser tra lor...

(VIII, 4).

La ragion perché i morti ebber sotterra

l’albergo lor non m’è del tutto nota.

Dei corpi intendo ben, perch’alla terra

riede la spoglia esanime ed immota;

ma lo spirto immortal ch’indi si sferra

non so ben perché al fondo anche percota.

Pur s’altre autorità non fosser pronte,

ciò la leggenda attesteria del conte

(VIII, 1).

Quanto piú la forza essenziale della protesta e dell’asserzione delle «miserie, non grandezze» dell’uomo si presenta negli impeti tipici di questo periodo o si distilla in satira sottile, crudele, aggressiva come nell’ottava precedente, il fiabesco, che era penetrato piú direttamente con il viaggio di Leccafondi assimilando e sollevando in proporzioni di ritmo piú preciso il generale ritmo di fiaba insito nello schema della guerra animalesca, si fa sempre piú sottile e filtrato passando dall’animazione di scene di rincalzo lievissime e lente come quella di Cassandrino, per agevolare il quadro della discesa del conte,

(Io vidi in Roma su le liete scene

che il nome appresso il volgo han di Fiano,

in una grotta ove sonar catene

s’ode e un lamento pauroso e strano,

discender Cassandrin dalle serene

aure per forza con un lume in mano,

che con tremule note in senso audace

parlando, spegne per tremar la face)

(VIII, 5),

a sostegno diretto di quel grottesco macabro (cosí raro su di un piano cosciente nella nostra letteratura ottocentesca) che collabora potentemente (ed artisticamente prevale assorbendo in sé l’altro tono) con la polemica anticattolica, con l’assalto alla credenza dell’aldilà accentuata sempre piú come stoltezza superstiziosa giudicata da una sicurezza illuministica ormai non piú solamente critica, ma aggressiva, appassionata secondo il calore di decisione e di impegno che investe ogni espressione leopardiana di questo periodo[13].

Cosí la puntata contro i premi e le pene («giustizia mosse il mio alto fattore»! – vedi VIII, 10-16) e contro l’immortalità, si fonde con la presentazione comica e orrida dell’inferno topesco che appare quasi all’improvviso attraverso le parole fino allora divagate della guida e che pure si nutre anche di quella polemica, di quelle punte acri e recise, di quella assoluta affermazione di incredulità. E ne acquista un’aria tanto piú strana e irreale (sulle linee razionalistiche che la sorreggono) nella sua duplice riduzione di proporzioni impicciolite e schiacciate dalla satira precedente e di ondeggiamento ambiguo topi-uomini infittito in questa parte da scambievoli accostamenti e reso tanto piú stridulo dal senso di limite estremo a cui l’alto giuoco fantastico è portato.

Non i tradizionali travestimenti di bestie che vivono «come» gli uomini, ma la singolare introduzione di bestie umanizzate in una zona di interessi supremi e consacrati dalla piú alta funzione della poesia (Divina Commedia), percorsa invece da un lampeggio ironico che la corrode e la deforma spaventosamente prima di aggredirla con volontà di annientamento.

E certo anche il coraggio, che qualcuno chiamerebbe empio, di questa che non si può chiamar piú parodia[14], è indice dell’estrema sicurezza di questo Leopardi cosí virile ed eroico anche negli atteggiamenti meno generosi e piú crudeli.

Son laggiú nel profondo immense file

di seggi ove non può lima o scarpello;

seggono i morti in ciaschedun sedile

con le mani appoggiate a un bastoncello...

Nessun guarda il vicino o gli fa motto...

Tremato sempre avea fin a quel punto

per la discesa, il ver non vi nascondo;

ma come vide quel funereo coro

per poco non restò morto con loro

(VIII, 16 ss.).

Eccoci nel pieno di quel grottesco funebre che il Leopardi ha saputo costruire con pochi elementi esterni e con la valorizzazione di un sorriso che da divertimento si è chiarito sempre piú terribile segno di coscienza della vanità di ogni retorica religiosa trascendente, di ogni frivola pretesa di antropocentrismo ambizioso simboleggiato crudelmente nella figura di Federico II, la quale nel triste averno topesco porta la suggestione dei cimiteri palermitani (quasi un motivo della volgarizzazione romantica della poesia sepolcrale nelle pedisseque guide alla David Bertolotti) e l’estremo risultato del macabro scambio di larve-cadaveri topeschi ed umani.

Forse con tal, non già con tanto orrore,

visto avete in sua carne ed in suoi panni

Federigo secondo imperatore

in Palermo giacer da secent’anni

senza naso né labbra, e di colore

quale il tempo può far con lunghi danni,

ma col brando alla cinta e incoronato,

e con l’imago della terra allato

(VIII, 19).

Dove quella specie di ghiribizzo surrealistico finale fissa in modo perentorio, piú che una macchietta episodica e di paragone, una immagine della vanità e della miseria umana.

La satira politica, che continua anche in questa parte piú tesa, resta particolare e superficiale e la narrazione che il conte Leccafondi fa delle sventure patrie a questi morti mezzo addormentati (l’esistere nudo dei morti di Ruysch qui diventa un tetro dormiveglia fra putrefazione e torpore che raggiunge il suo culmine grottesco nel singolare modo di parlare indicato alla strofa 28:

tal con un profferir torbo ed impuro

che fean mezzo le labbra e mezzo il naso)

provoca un’altra espressione di questo macabro leopardiano: la risata o meglio la traduzione mortuaria di una risata che si spande per tutto l’Averno topesco:

Non è l’estinto un animal risivo,

anzi negata gli è per legge eterna

la virtú per la quale è dato al vivo

che una sciocchezza insolita discerna,

sfogar con un sonoro e convulsivo

atto un prurito della parte interna.

Però, del conte la dimanda udita,

non risero i passati all’altra vita.

Ma primamente allor su per la notte

perpetua si diffuse un suon giocondo,

che di secolo in secolo alle grotte

piú remote pervenne insino al fondo

(VIII, 24-25).

Risata funerea che risponde non tanto alla domanda ingenua del conte sulle possibilità che Topaia sia liberata con l’aiuto straniero (vicende del ’20-21 intrecciate con atteggiamenti del ’31) quanto piú in alto ad ogni ingenuo fervore attivistico umano, ad ogni impegno nella «retorica» delle illusioni progressiste a base spiritualistica.

È in questo senso che, visto in quest’ultima parte piú intensa e rivisto tutto illuminato a posteriori da questa luce essenziale, il poemetto si rivela sobriamente, ma nettamente terribile, secondo la definizione del Gioberti, acutissimo giudice di atteggiamenti fra poetici e spirituali.

Poco importa se i toni qui raggiunti si sciolgono poi alla fine del poemetto e un rapido finale volutamente caotico e bizzarro

(Questa in lingua sanscrita e tibetana,

indostanica, pahli e giapponese,

arabica, rabbinica, persiana,

etiopica, tartara e cinese,

siriaca, caldaica, egiziana,

mesogotica, sassone e gallese,

finnica, serviana e dalmatina,

valacca, provenzal, greca e latina)

(VIII, 43)

taglia improvvisamente, quasi a ribaltare di colpo l’impressione di un’ordinata narrazione e a rivelare meglio la sua estrosa indole di alto divertimento capace di filare bonario e scherzoso o di scatenarsi acre e terribile in coerenza con la sua piú segreta ed intima natura.

È questa natura potente e testimoniata dall’energia che si libera nelle parti piú decisive e si organizza con piú franchezza negli ultimi canti sostenendo quel tono funebre e grottesco, quel macabro cui il Leopardi aspirava da tempo e che è ben coerente con l’aria scura, con l’ossessione lirica del sepolcro che c’è nella sua poesia da Amore e Morte, alle Canzoni sepolcrali, alla Ginestra; è questa natura quella che freme in tutto il poemetto sotto le forme piú blande e divagate nutrendone tutte le punte di scherzo amaro, appoggiando con la sua integra forza caratteristica di questa conquista leopardiana le parti piú discorsive e descrittive in cui si sbizzarrisce in alto divertimento il gusto di rabesco. Che era come piú neoclassico ed esangue nelle Operette e qui si fa piú pungente e scattante data la generale mutazione di costatazione in rivolta. E la rivolta permane, la protesta si approfondisce e lo stile dei Paralipomeni non segna un semplice abbandono della forma «eroica» di questo periodo, ma il suo adattarsi su di un tono medio da cui spesso ricompare nella sua interezza, su di una trama piú discorsiva, in una preziosa ambiguità che arricchisce le sue estreme possibilità quali appaiono nella Ginestra, la carica di quel carattere sibillino, esoterico quasi, che, come altrove abbiamo detto, accompagna la linea non idillica, dalla Canzone alla sua donna, dal Coro dei morti, dalle offerte delle Operette e rende piú complesso e profondo il timbro delle affermazioni liriche piú decisive.

Lo stesso effetto, già notato, di una progressiva rivelazione della vera natura dei Paralipomeni, di un accorgersi progressivo da parte del lettore del vero ambiente in cui si trova, del vero valore di quella satira, di quegli scherzi, di quel ritmo, segnala, molto al di là delle comuni valutazioni critiche che sembrano non aver compiuto questo lavoro a ritroso, la profondità, la complessità e la giustificazione interna della soluzione stilistica che il Leopardi è venuto elaborando nel corso del poemetto applicando fuori dell’accensione lirica la sua nuova poetica a condizioni apparentemente refrattarie di acidità (quella sterile e gelata, senile acidità che viene spesso riscontrata nei Pensieri) inadatta a fermenti vitali di impeto lirico.

Come si può notare per la Palinodia e i Nuovi Credenti, il Leopardi stava portando la sua poetica nel pieno del suo pensiero, della sua persuasione e, sulla base della lirica pienezza del Pensiero dominante, operava un nuovo tentativo di arricchimento, di integrale espressione con tutti i rischi a lui cari che comportava, tentava il suo linguaggio in quella sfera tra ragionativa ed antiretorica che metteva a prova la sua nuova eloquenza personale in vista di una ulteriore affermazione romantica di espressione senza residuo, di parola non pittoresca, etimologicamente poetica e rinnovatrice. Ma mentre nella Palinodia e nei Nuovi Credenti il piano polemico cercava formule di incisione classicistica o di approssimazione di evidenza e di efficacia e l’esercizio di stile si esauriva in chiare direzioni ben limitate, nei Paralipomeni la ricerca è molto piú complessa e supera l’ambito dell’esercizio per risultati in sé e per sé notevolissimi. Tanto notevoli che in una dimostrazione di linee tipiche dello sviluppo leopardiano si potrebbe far culminare nei Paralipomeni e precisamente nei canti dell’Inferno topesco la tensione leopardiana verso il macabro, verso una vittoria del pittoresco e dell’idillico nel grottesco carico di razionalistica acutezza e di allibito senso dell’orrore mortuario che tace sotto le verdi zolle domestiche e divinamente pittoresche dell’idillio di brevi vite, di morti giovanili.

Il libro «terribile» è qualcosa di meno e di piú: il divertimento, il tono medio involge le punte piú crudeli, attutisce le luci piú paurose, ma permette pure che invece di una prosa alla Poe isolata e discutibile, nasca un’esperienza coerente e vitale in sé e per la costruzione dell’ultimo capolavoro leopardiano. Ed è in questa intenzione funzionale che i Paralipomeni trovano piú facilmente anche il loro storico valore particolare.


1 «o come dianzi la fiamminga gente», I, c. 4, in cui si allude alla sconfitta dei belgi del 12 agosto 1831.

2 Lettera del 28 giugno 1837.

3 Il Ranieri disse nei Sette anni di sodalizio che il poeta gli dettava quelle ottave «per ingannar il tempo e passar mattana».

4 Silvio Tissi, L’ironia leopardiana, Firenze 1920.

5 V, 24.

6 Se ne può ricavare che solo il primo canto al massimo poté essere fiorentino? Certi spunti risentiti di paesaggio appoggerebbero tali ipotesi anche se si può obiettare che data la vicenda “napoletana” dei moti liberali l’allusione a Napoli è in parte indipendente dalla vicenda napoletana dell’autore.

7 A proposito del tono paradossale che in questo viaggio si sviluppa si noti fin d’ora come il nostro gusto moderno ci aiuta alla comprensione, assai piú della sintesi classico-sentimentale della critica desanctisiano-crociana, che difatti non ha dato dei Paralipomeni una illustrazione adeguata.

8 Dove sono non solo i bruti, ma gli uomini con la porta per la loro altezza, il che accresce l’orrore naturalistico di questo Averno, contro le interpretazioni piú blande. Vedi VII, 50-51, e VIII, 4.

9 Tono risentito che si appoggia ad un senso austero della virtú e dell’eroismo contro l’opinione dei piú e la stoltezza di ogni boria, che trova la sua giustificazione anche nello strano encomio di Rubatocchi che nella fuga generale dei topi rimane solo a combattere («sol io combatterò / procomberò sol io»!) quasi traduzione estrema dell’immagine eroica del giovane Leopardi. In realtà, a parte le suggestioni dei poemi eroicomici, questo trionfo dell’eroe-topo vive sempre nel tono di musica media del poemetto e pare indicare in quelle proporzioni deformate un valore indipendente dal caduco e dalle superbie degli uomini in quanto affermazione eroica: non dunque una scettica negazione di ogni valore, ma distinzione del valore come affermazione personale sopra la viltà comune e la piccolezza della sorte umana non dissimile da quella sorcina. La piccola, grottesca immagine di Rubatocchi è come prezioso preludio dell’uomo della Ginestra indomito e non stoltamente superbo e non stoltamente servile di fronte ad un potere superiore che lo ignora e lo martorizza:

Cadde, ma il suo cader non vide il cielo

(V, 46).

Appassionata e coerente posizione del Leopardi maturo che quanto piú odiava la vanità di atteggiamenti retorici, non consci della situazione umana, tanto piú valorizzava la forza morale sorta da una persuasione disillusa e disinteressata.

Bella virtú, qualor di te s’avvede,

come per lieto avvenimento esulta

lo spirto mio; né da sprezzar ti crede

se in topi anche sii tu nutrita e culta.

Alla bellezza tua ch’ogni altra eccede,

o nota e chiara, o ti ritrovi occulta,

sempre si prostra: e non pur vera e salda,

ma imaginata ancor, di te si scalda.

Ahi! ma dove sei tu? sognata o finta

sempre? vera nessuna giammai ti vide?

O fosti già coi topi a un tempo estinta,

né piú fra noi la tua beltà sorride?

Ah, se d’allor non fosti invan dipinta,

né con Teseo peristi o con Alcide,

certo d’allora in qua fu ciascun giorno

piú raro il tuo sorriso e meno adorno

(V, 47-48).

Versi in cui il tono accorato con cui si invoca la virtú (e potrebbe, se ce ne fosse bisogno, autorizzare su altro piano di quello ariostesco il desanctisiano: che cuore aveva il Leopardi!) è piú indizio di un fortissimo movimento di coscienza che non di una conclusione passiva, di rinuncia: molto lontano questo Leopardi da quello che nel dialogo Il Galantomo e il Mondo diceva che la virtú serve «a non cavare un ragno da un buco. A fare che tutti vi mettano i piedi sulla pancia e vi ridano sul viso e dietro le spalle, a essere infamato, vituperato, ingiuriato, perseguitato, schiaffeggiato, sputacchiato anche dalla feccia piú schifosa e dalla marmaglia piú codarda che si possa immaginare» (Opere, ed. Flora, I, p. 1080).

10 Sulla posizione di Giacomo Leopardi di fronte ai reazionari del suo tempo, oltre le espressioni inequivoche contro i Dialoghetti del padre, si citi un brano di una lettera a Monaldo (Napoli, 19 febbraio 1835) assai adatto a chiarire il profondo disprezzo che il poeta nutriva contro i regimi assoluti, contro «le corti del tamburo e dello schioppo» secondo l’espressione alfieriana: «I legittimi (mi permetterà di dirlo) non amano troppo che la loro causa si difenda con parole, atteso che il solo confessare che nel globo terrestre vi sia qualcuno che ponga in dubbio la plenitudine dei loro diritti, è cosa che eccede di gran lunga la libertà conceduta alle penne dei mortali: oltre che essi molto saviamente preferiscono alle ragioni, a cui, bene o male, si può sempre replicare, gli argomenti del cannone e del carcere duro, ai quali i loro avversari per ora non hanno che rispondere». Atteggiamento dei reazionari che si riflette nelle parole con cui «Senzacapo» re dei granchi e i granchi tutti son presentati come strumenti ciechi di oppressione.

Noi, disse il general, siam birri appunto

d’Europa e boia e professiam quest’arte.

(II, 37).

I reazionari nel poemetto vivono in una bestiale chiusura, fuori di ogni discussione di valore, che poeticamente si trasfigura efficacemente nella durezza crostacea, nella lucentezza paurosa e quasi meccanica di quei movimenti, di quella anonima voracità e ottusità con cui i granchi si realizzano nel loro carattere militaresco:

Già per mezzo all’instabil polverio

si discernea de’ granchi il popol duro,

che quetamente senza romorio

nella sua gravità venia sicuro

(V, 41).

Quel carattere militaresco e poliziesco in cui eccelle la macchietta scabra e a scatto metallico di Brancaforte:

Sputò, mirossi intorno e si compose

il general dell’incrostata gente

e con montana gravità rispose.

(II, 30).

Sputò di nuovo e posesi in assetto

il general de’ granchi.

(II, 41).

11 Una delle scene piú tenui e lineari che siano riuscite al Leopardi, pur nel linguaggio approssimativo e burlesco volutamente adoperato:

un picciol vento

freddo, di punte e di coltella armato,

che dovunque, spirando, il percotea...

(VI, 30).

12 Tesi che è già l’oggetto polemico della Scommessa di Prometeo.

13 La lotta contro lo spiritualismo implica una esaltazione del ’700

(ove, se intera

la mia mente oso dir, portò ciascuna

facoltà nostra a quelle cime il passo

onde tosto inclinar l’è forza al basso

(IV, 15)

che è connessa del resto con una forza di «fede» molto romantica tanto piú che la filosofia illuministica amata dal Leopardi è proprio quel materialismo nel suo aspetto pessimistico che trovò mediante il sensismo uno sviluppo nel sentimentalismo romantico e nella tipica protesta romantica. Tanto che si può asserire che il Leopardi accettò la filosofia illuministica nella sua interpretazione sensistico-pessimistica come alcuni romantici si ribellarono ad essa nella sua unilaterale interpretazione ottimistica e cioè per una spinta sentimentale assai simile: piú latamente coerente in questi, piú rigorosa e fruttuosa in lui, perché è innegabile che l’impasto illuminismo-romanticismo ha dato al Leopardi un risultato di tono e di intera vita poetica piú pieno di ogni altra romantica sintesi storicistica e spiritualistica. Come è anche facile constatare come il Leopardi sia il culmine della linea poetica italiana iniziatasi con la crisi preromantica e sviluppatasi in un romanticismo neoclassico di originalità squisita e potente.

14 Come è invece parodia il poemetto del Casti, Gli animali parlanti, che il Leopardi ebbe presente soprattutto per lo stimolo illuministico che ne veniva entro la tradizione favolistica ed eroicomica.